AFRICA/SUD SUDAN - Malakal, città di 250.000 abitanti, completamente deserta dopo gli assalti ribelli: la testimonianza a Fides di una missionaria
Juba – “Malakal, una città di 250.000 abitanti, è completamente deserta, non c’è più nessuno. Anche se la nostra sicurezza fosse garantita, rimanere lì sarebbe stato completamente inutile, perché non avremmo avuto nessuno da assistere” dice all’Agenzia Fides Suor Elena Balatti, missionaria comboniana, appena giunta a Juba da Malakal, capoluogo dello Stato petrolifero dell’Alto Nilo, al centro degli scontri tra i militari governativi e i ribelli fedeli all’ex Vice Presidente Riek Machar. “Gli unici presenti sono i ribelli sia pure in numero ridotto” aggiunge,
Suor Elena spiega che “Malakal è stata attaccata per ben tre volte dalle forze ribelli di Riek Machar: alla vigilia di Natale, il 14 gennaio e il 18 febbraio. Al termine di ogni attacco gli abitanti progressivamente abbandonava la città. Molti si sono rifugiati nei villaggi limitrofi, altri si sono diretti nel nord dello Stato, altri ancora addirittura verso il Sudan. Un numero limitato di persone ha trovato rifugio a Juba, la capitale, raggiungibile solo per via aerea. Infine ci sono ancora 20.000 sfollati accolti nel campo dell’ONU nei pressi della città”. La missionaria descrive un quadro sconfortante: “la città è stata distrutta. Ho ancora in mente l’immagine del mercato cittadino con gli addobbi natalizi, poco prima dell’attacco del 24 dicembre. Adesso quel mercato non esiste più. Tutte le strutture governative sono state saccheggiate e incendiate”.
Suor Elena denuncia i crimini commessi contro i civili dai ribelli: “La violenza delle donne è diventata un crimine molto diffuso, soprattutto in quest’ultimo attacco. Prima di prendere l’aereo per Juba ho portato all’ospedale della Croce Rossa una ragazzina di 12 anni che faceva parte di un gruppo di 9 giovanissime che erano state violentate nella chiesa di Cristo Re. Dalle testimonianze della gente che si era rifugiata nella chiesa, la sera del 25 febbraio i ribelli sono arrivati a tre riprese per rapire le 9 ragazzine”.“Nell’ultimo attacco - continua a raccontare la religiosa - i pochi abitanti rimasti, che avevano trovato rifugio nelle chiese risparmiate dagli assalti precedenti, hanno visto i ribelli assalire i luoghi di culto. In particolare gli uomini del cosiddetto ‘White Army’ sono entrati direttamente nelle chiese, oltre che nell’ospedale e nell’orfanotrofio, perché erano gli unici posti ancora da saccheggiare e dove trovare persone sulle quali esercitare la propria vendetta. Alcune persone sono state uccise nelle chiese”.
Suor Elena spiega così la decisione di abbandonare la città: “Eravamo rimaste le ultime tre suore comboniane. Dopo che anche la nostra casa è stata saccheggiata, non avevamo un posto dove abitare. Siamo rimaste, insieme ai sacerdoti locali, fino a quando una parte minima della popolazione ancora restava a Malakal. Ora che tutti sono fuggiti, anche noi abbiamo abbandonato Malakal con l’ultimo gruppo di persone, perché non c’era più ragione di rimanere in una città deserta”.Nonostante gli accordi per il cessate il fuoco firmati ad Addis Abeba, gli scontri continuano. “I ribelli hanno dichiarato di puntare alla conquista dei pozzi di petrolio dell’Alto Nilo che sono gli unici che ancora funzionano a pieno regime. Preghiamo perché si raggiunga un accordo che faccia cessare i combattimenti, come primo passo per la pace” conclude la missionaria.
Juba – “Malakal, una città di 250.000 abitanti, è completamente deserta, non c’è più nessuno. Anche se la nostra sicurezza fosse garantita, rimanere lì sarebbe stato completamente inutile, perché non avremmo avuto nessuno da assistere” dice all’Agenzia Fides Suor Elena Balatti, missionaria comboniana, appena giunta a Juba da Malakal, capoluogo dello Stato petrolifero dell’Alto Nilo, al centro degli scontri tra i militari governativi e i ribelli fedeli all’ex Vice Presidente Riek Machar. “Gli unici presenti sono i ribelli sia pure in numero ridotto” aggiunge,
Suor Elena spiega che “Malakal è stata attaccata per ben tre volte dalle forze ribelli di Riek Machar: alla vigilia di Natale, il 14 gennaio e il 18 febbraio. Al termine di ogni attacco gli abitanti progressivamente abbandonava la città. Molti si sono rifugiati nei villaggi limitrofi, altri si sono diretti nel nord dello Stato, altri ancora addirittura verso il Sudan. Un numero limitato di persone ha trovato rifugio a Juba, la capitale, raggiungibile solo per via aerea. Infine ci sono ancora 20.000 sfollati accolti nel campo dell’ONU nei pressi della città”. La missionaria descrive un quadro sconfortante: “la città è stata distrutta. Ho ancora in mente l’immagine del mercato cittadino con gli addobbi natalizi, poco prima dell’attacco del 24 dicembre. Adesso quel mercato non esiste più. Tutte le strutture governative sono state saccheggiate e incendiate”.
Suor Elena denuncia i crimini commessi contro i civili dai ribelli: “La violenza delle donne è diventata un crimine molto diffuso, soprattutto in quest’ultimo attacco. Prima di prendere l’aereo per Juba ho portato all’ospedale della Croce Rossa una ragazzina di 12 anni che faceva parte di un gruppo di 9 giovanissime che erano state violentate nella chiesa di Cristo Re. Dalle testimonianze della gente che si era rifugiata nella chiesa, la sera del 25 febbraio i ribelli sono arrivati a tre riprese per rapire le 9 ragazzine”.“Nell’ultimo attacco - continua a raccontare la religiosa - i pochi abitanti rimasti, che avevano trovato rifugio nelle chiese risparmiate dagli assalti precedenti, hanno visto i ribelli assalire i luoghi di culto. In particolare gli uomini del cosiddetto ‘White Army’ sono entrati direttamente nelle chiese, oltre che nell’ospedale e nell’orfanotrofio, perché erano gli unici posti ancora da saccheggiare e dove trovare persone sulle quali esercitare la propria vendetta. Alcune persone sono state uccise nelle chiese”.
Suor Elena spiega così la decisione di abbandonare la città: “Eravamo rimaste le ultime tre suore comboniane. Dopo che anche la nostra casa è stata saccheggiata, non avevamo un posto dove abitare. Siamo rimaste, insieme ai sacerdoti locali, fino a quando una parte minima della popolazione ancora restava a Malakal. Ora che tutti sono fuggiti, anche noi abbiamo abbandonato Malakal con l’ultimo gruppo di persone, perché non c’era più ragione di rimanere in una città deserta”.Nonostante gli accordi per il cessate il fuoco firmati ad Addis Abeba, gli scontri continuano. “I ribelli hanno dichiarato di puntare alla conquista dei pozzi di petrolio dell’Alto Nilo che sono gli unici che ancora funzionano a pieno regime. Preghiamo perché si raggiunga un accordo che faccia cessare i combattimenti, come primo passo per la pace” conclude la missionaria.
Dalla Agenzia FIDES: "CREARE CORRIDOI UMANITARI E COINVOLGERE LA SOCIETÀ CIVILE NEI NEGOZIATI: APPELLO DEI VESCOVI EST AFRICANI"
(27 gennaio 2013)
Juba (Agenzia Fides)-Creare subito dei corridoi umanitari per soccorre le popolazione fuggite dai combattimenti nel Sud Sudan. È l’appello lanciato dall’AMECEA (Associazione dei Membri delle Conferenza Episcopali dell’Africa Orientale) in una dichiarazione inviata all’Agenzia Fides. “La comunità internazionale sa che esiste un obbligo morale a intervenire per soccorrere il gran numero di persone la cui sopravvivenza è minacciata e i cui diritti umani sono seriamente minacciati” sottolinea il documento.
Nonostante il cessate il fuoco raggiunto ad Addis Abeba tra i rappresentanti delle due fazioni rivali dell’SPLM (Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese) che si combattono dal 15 dicembre, la situazione in Sud Sudan è ancora instabile. Il governo e ribelli si accusano a vicenda di diverse violazioni della tregua.
La dichiarazione dell’AMECEA sottolinea l’esigenza di “espandere il tavolo negoziale” coinvolgendo non solo il governo e i ribelli, ma anche tutte le componenti della società sud sudanese.
Si ricorda infatti che l’indipendenza del Sud Sudan “non è stato solo un successo militare. Sono stati i sud sudanesi come unico popolo che hanno lottato per la liberazione. Occorre quindi evitare la militarizzazione della gestione degli affari statali”.
“La Chiesa ha inoltre svolto un ruolo importante nella lotta per la liberazione nazionale” affermano i Vescovi che sottolineano come la maggior parte dei sud sudanesi abbia ricevuto il battesimo: un fatto che dovrebbe aiutare le popolazioni locali a superare le divisioni etniche e tribali. “Ammiriamo i forti legami ecumenici che esistono tra la chiese sud sudanesi, che in questo modo svolgono un ruolo profetico nell’unire il popolo sud sudanese” ribadiscono i Vescovi che concludono affidando il Paese all’intercessione della Vergine Maria, Regina della Pace e Regina dell’Africa.
L’AMECEA riunisce le Conferenze Episcopali di Etiopia, Eritrea, Kenya, Malawi, Sud Sudan, Sudan, Tanzania, Uganda e Zambia.
(27 gennaio 2013)
Juba (Agenzia Fides)-Creare subito dei corridoi umanitari per soccorre le popolazione fuggite dai combattimenti nel Sud Sudan. È l’appello lanciato dall’AMECEA (Associazione dei Membri delle Conferenza Episcopali dell’Africa Orientale) in una dichiarazione inviata all’Agenzia Fides. “La comunità internazionale sa che esiste un obbligo morale a intervenire per soccorrere il gran numero di persone la cui sopravvivenza è minacciata e i cui diritti umani sono seriamente minacciati” sottolinea il documento.
Nonostante il cessate il fuoco raggiunto ad Addis Abeba tra i rappresentanti delle due fazioni rivali dell’SPLM (Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese) che si combattono dal 15 dicembre, la situazione in Sud Sudan è ancora instabile. Il governo e ribelli si accusano a vicenda di diverse violazioni della tregua.
La dichiarazione dell’AMECEA sottolinea l’esigenza di “espandere il tavolo negoziale” coinvolgendo non solo il governo e i ribelli, ma anche tutte le componenti della società sud sudanese.
Si ricorda infatti che l’indipendenza del Sud Sudan “non è stato solo un successo militare. Sono stati i sud sudanesi come unico popolo che hanno lottato per la liberazione. Occorre quindi evitare la militarizzazione della gestione degli affari statali”.
“La Chiesa ha inoltre svolto un ruolo importante nella lotta per la liberazione nazionale” affermano i Vescovi che sottolineano come la maggior parte dei sud sudanesi abbia ricevuto il battesimo: un fatto che dovrebbe aiutare le popolazioni locali a superare le divisioni etniche e tribali. “Ammiriamo i forti legami ecumenici che esistono tra la chiese sud sudanesi, che in questo modo svolgono un ruolo profetico nell’unire il popolo sud sudanese” ribadiscono i Vescovi che concludono affidando il Paese all’intercessione della Vergine Maria, Regina della Pace e Regina dell’Africa.
L’AMECEA riunisce le Conferenze Episcopali di Etiopia, Eritrea, Kenya, Malawi, Sud Sudan, Sudan, Tanzania, Uganda e Zambia.
Dalla Agenzia FIDES: "PRECLUSE LE CURE MEDICHE A MIGLIAIA DI PERSONE, PRIVE DI ACQUA E CIBO"
(21 gennaio 2014)
Bentiu (Agenzia Fides) - A causa del conflitto in corso, a migliaia di persone a Bentiu, capitale dell’Unity State in Sud Sudan, sono precluse le cure mediche, e circa 10 mila sfollati si stanno dirigendo a Leer, nel sud del Paese. Migliaia di persone non hanno accesso ad acqua, cibo e cure mediche oltre che nella città anche nelle aree circostanti. I recenti saccheggi avvenuti nelle strutture dell’organizzazione Medici Senza Frontiere (MSF) mettono a rischio le operazioni dell’ong e la risposta umanitaria alla violenza in corso. L’appello del direttore generale di MSF è che tutte le parti coinvolte nel conflitto rispettino l’integrità delle strutture mediche, garantiscano l’accesso alle comunità colpite e permettano ai pazienti di raggiungere le strutture a prescindere dalla loro origine ed etnia. MSF era una delle poche organizzazioni umanitarie ancora presenti in città per fornire assistenza a sfollati e feriti in ospedale. Impegnata a Bentiu dal 2010, prima del conflitto l’organizzazione forniva cure per la tubercolosi, l’HIV/AIDS e la malnutrizione alla popolazione locale. Dopo lo scoppio del conflitto, si è concentrata sul trattamento dei feriti ricoverati in ospedale in fase post-operatoria e sulla somministrazione di cure mediche di base agli sfollati che hanno cercato rifugio in una delle basi delle Nazioni Unite. Solo pochi giorni fa, con l’aggravarsi delle condizioni di sicurezza, le équipe di MSF sono state trasferite a Leer, a circa tre ore e mezza di distanza, dove hanno fornito supporto ai loro colleghi nell’ospedale che MSF gestisce da 25 anni. In aggiunta alle cure mediche regolari, le équipe stanno ora iniziando a ricevere i feriti di guerra da Bentiu. Migliaia di persone sono fuggite dalla città senza portare nulla con sé e gli operatori cercano di fornire assistenza lungo la strada da Bentiu a Leer. (AP) (21/1/2014 Agenzia Fides)
(21 gennaio 2014)
Bentiu (Agenzia Fides) - A causa del conflitto in corso, a migliaia di persone a Bentiu, capitale dell’Unity State in Sud Sudan, sono precluse le cure mediche, e circa 10 mila sfollati si stanno dirigendo a Leer, nel sud del Paese. Migliaia di persone non hanno accesso ad acqua, cibo e cure mediche oltre che nella città anche nelle aree circostanti. I recenti saccheggi avvenuti nelle strutture dell’organizzazione Medici Senza Frontiere (MSF) mettono a rischio le operazioni dell’ong e la risposta umanitaria alla violenza in corso. L’appello del direttore generale di MSF è che tutte le parti coinvolte nel conflitto rispettino l’integrità delle strutture mediche, garantiscano l’accesso alle comunità colpite e permettano ai pazienti di raggiungere le strutture a prescindere dalla loro origine ed etnia. MSF era una delle poche organizzazioni umanitarie ancora presenti in città per fornire assistenza a sfollati e feriti in ospedale. Impegnata a Bentiu dal 2010, prima del conflitto l’organizzazione forniva cure per la tubercolosi, l’HIV/AIDS e la malnutrizione alla popolazione locale. Dopo lo scoppio del conflitto, si è concentrata sul trattamento dei feriti ricoverati in ospedale in fase post-operatoria e sulla somministrazione di cure mediche di base agli sfollati che hanno cercato rifugio in una delle basi delle Nazioni Unite. Solo pochi giorni fa, con l’aggravarsi delle condizioni di sicurezza, le équipe di MSF sono state trasferite a Leer, a circa tre ore e mezza di distanza, dove hanno fornito supporto ai loro colleghi nell’ospedale che MSF gestisce da 25 anni. In aggiunta alle cure mediche regolari, le équipe stanno ora iniziando a ricevere i feriti di guerra da Bentiu. Migliaia di persone sono fuggite dalla città senza portare nulla con sé e gli operatori cercano di fornire assistenza lungo la strada da Bentiu a Leer. (AP) (21/1/2014 Agenzia Fides)
Dalla Agenzia FIDES: "IL CARDINALE WAKO LANCIA UN APPELLO PER LA PACE NEL SUD SUDAN"
(20 gennaio 2014)
Juba (Agenzia Fides)- Il Cardinale Gabriel Zubeir Wako, Arcivescovo di Khartoum, ha lanciato un appello ai leader politici del Sud Sudan perché vadano oltre al loro interesse personali per risolvere la crisi nella quale è sprofondato il Paese.
Il Cardinale Wako, che si trova a Juba, capitale del Sud Sudan, per prendere parte alla riunione della Conferenza Episcopale dei Vescovi del Sudan e del Sud Sudan, ha invitato i sud-sudanesi a prendere coscienza che tutti sono figli di Dio, e che tra fratelli non ci si uccide. Lo scontro tra i due uomini forti del partito al governo (SPLM, Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese), il Presidente Salva Kiir e l’ex Vice Presidente Riek Machar, ha assunto una dimensione etnica coinvolgendo le due maggiori tribù del Paese: Dinka e Nuer.
Nel frattempo, nonostante le trattative che si svolgono in Etiopia tra rappresentanti dei due contendenti, la guerra continua. I combattimenti sono concentrati a Malakal, capitale dello Stato dell’Alto Nilo (nord-est). Il 18 gennaio l’esercito aveva ripreso il controllo di Bor, capitale dello Stato di Jonglei (est). Sono proprio gli Stati dove sono concentrate le risorse petrolifere del Paese ad essere al centro dei combattimenti, scoppiati il 15 dicembre. L’altro Stato coinvolto è infatti quello di Unità la cui capitale è Bentiu.
Il timore è che se i combattimenti non si fermano al più presto, il Sud Sudan sprofondi in una ancora più sanguinosa e distruttiva guerra civile, coinvolgendo nello scontro altri gruppi armati ed etnici. Il conflitto ha già assunto una dimensione internazionale: truppe ugandesi sono intervenute a fianco di quelle dei Kiir mentre anche il Kenya ha inviato propri soldati ufficialmente per proteggere i propri cittadini che vivono e lavorano nel Paese. (L.M.) (Agenzia Fides 201/1/2014)
(20 gennaio 2014)
Juba (Agenzia Fides)- Il Cardinale Gabriel Zubeir Wako, Arcivescovo di Khartoum, ha lanciato un appello ai leader politici del Sud Sudan perché vadano oltre al loro interesse personali per risolvere la crisi nella quale è sprofondato il Paese.
Il Cardinale Wako, che si trova a Juba, capitale del Sud Sudan, per prendere parte alla riunione della Conferenza Episcopale dei Vescovi del Sudan e del Sud Sudan, ha invitato i sud-sudanesi a prendere coscienza che tutti sono figli di Dio, e che tra fratelli non ci si uccide. Lo scontro tra i due uomini forti del partito al governo (SPLM, Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese), il Presidente Salva Kiir e l’ex Vice Presidente Riek Machar, ha assunto una dimensione etnica coinvolgendo le due maggiori tribù del Paese: Dinka e Nuer.
Nel frattempo, nonostante le trattative che si svolgono in Etiopia tra rappresentanti dei due contendenti, la guerra continua. I combattimenti sono concentrati a Malakal, capitale dello Stato dell’Alto Nilo (nord-est). Il 18 gennaio l’esercito aveva ripreso il controllo di Bor, capitale dello Stato di Jonglei (est). Sono proprio gli Stati dove sono concentrate le risorse petrolifere del Paese ad essere al centro dei combattimenti, scoppiati il 15 dicembre. L’altro Stato coinvolto è infatti quello di Unità la cui capitale è Bentiu.
Il timore è che se i combattimenti non si fermano al più presto, il Sud Sudan sprofondi in una ancora più sanguinosa e distruttiva guerra civile, coinvolgendo nello scontro altri gruppi armati ed etnici. Il conflitto ha già assunto una dimensione internazionale: truppe ugandesi sono intervenute a fianco di quelle dei Kiir mentre anche il Kenya ha inviato propri soldati ufficialmente per proteggere i propri cittadini che vivono e lavorano nel Paese. (L.M.) (Agenzia Fides 201/1/2014)
Dalla Agenzia MISNA: "LA PRESA DI BOR, ULTIMO COLPO DI PETER GADET IL RIBELLE"
(20 dicembre 2013)
“Peter Gadet resta un punto interrogativo o, quantomeno, un personaggio del quale è difficile prevedere le mosse”: Emile Lebrun, esperto del centro studi Small Arms Survey, descrive così alla MISNA il comandante ribelle che da mercoledì controlla una delle principali città del Sud Sudan.
La caduta di Bor, il capoluogo della regione di Jonglei, è uno dei fatti più significativi dall’inizio della crisi che sta contrapponendo reparti dell’esercito fedeli al presidente Salva Kiir e unità combattenti che sostengono il suo ex vice Riek Machar. Uno scontro di potere interno del partito di governo, il Movimento popolare di liberazione del Sudan (Splm), che rischia però di offrire opportunità a comandanti e capi milizie vecchi e nuovi. Uno di questi, spiegano alla MISNA, è Gadet. Secondo Jonah Leff, un altro esperto di Small Arms Survey, “questo comandante potrebbe essere in grado di assumere la guida dell’Armata bianca, una forza composta per lo più da Nuer, responsabile sin dai tempi della guerra civile di attacchi ai danni delle comunità Murle”. Alla MISNA Leff dice anche che, potenzialmente, “l’Armata bianca è in grado di mobilitare fino a 10.000 combattenti”. Dalla sua, poi, Gadet avrebbe parte dell’ottava divisione dell’esercito; unità, anche in questo caso, Nuer come lui e come Machar. Per la prima volta Gadet aveva preso le armi contro il presidente Salva Kiir e il suo governo nel marzo 2011. L’11 aprile di quello stesso anno, a nome del suo Movimento di liberazione del Sud Sudan (Sslm, nell’acronimo inglese), aveva firmato la Dichiarazione di Mayom: un documento nel quale criticava la direzione dell’Splm denunciando un’egemonia politica della comunità Dinka e chiedendo la nascita di un governo di coalizione “democratico” e frutto di un’alleanza ampia. Quel testo gli era valso amicizie nuove e influenti, in particolare con alcuni capi ribelli Nuer attivi nella regione petrolifera di Unity. “Uno di questi – sottolinea Lebrun – è James Gai Yoach, oggi a Khartoum, capace di mobilitare uomini anche nell’Upper Nile e in altre regioni al confine tra i due Sudan”.
Dopo mesi di scontri, però, le cose erano cambiate. Gadet aveva approfittato di un’offerta di amnistia di Kiir ed era divenuto ufficiale dell’esercito garantendo rendite di posizione e privilegi anche ai suoi compagni. La sua ascesa era proseguita nel 2012, quando era stato scelto per coordinare la campagna di disarmo delle comunità Nuer e Murle in lotta tra loro a Jonglei. Un impegno, questo, culminato nel marzo scorso nell’assegnazione di un incarico di rilievo ancora maggiore: la direzione dell’offensiva militare contro David Yau Yau, un capo ribelle Murle dal 2012 alla guida dell’Esercito per la difesa del Sud Sudan. Poi l’ultimo colpo di scena, questa settimana, con la caduta di Bor e il sostegno a Machar.
© 2013 MISNA - Missionary International Service News Agency Srl - All Right
La caduta di Bor, il capoluogo della regione di Jonglei, è uno dei fatti più significativi dall’inizio della crisi che sta contrapponendo reparti dell’esercito fedeli al presidente Salva Kiir e unità combattenti che sostengono il suo ex vice Riek Machar. Uno scontro di potere interno del partito di governo, il Movimento popolare di liberazione del Sudan (Splm), che rischia però di offrire opportunità a comandanti e capi milizie vecchi e nuovi. Uno di questi, spiegano alla MISNA, è Gadet. Secondo Jonah Leff, un altro esperto di Small Arms Survey, “questo comandante potrebbe essere in grado di assumere la guida dell’Armata bianca, una forza composta per lo più da Nuer, responsabile sin dai tempi della guerra civile di attacchi ai danni delle comunità Murle”. Alla MISNA Leff dice anche che, potenzialmente, “l’Armata bianca è in grado di mobilitare fino a 10.000 combattenti”. Dalla sua, poi, Gadet avrebbe parte dell’ottava divisione dell’esercito; unità, anche in questo caso, Nuer come lui e come Machar. Per la prima volta Gadet aveva preso le armi contro il presidente Salva Kiir e il suo governo nel marzo 2011. L’11 aprile di quello stesso anno, a nome del suo Movimento di liberazione del Sud Sudan (Sslm, nell’acronimo inglese), aveva firmato la Dichiarazione di Mayom: un documento nel quale criticava la direzione dell’Splm denunciando un’egemonia politica della comunità Dinka e chiedendo la nascita di un governo di coalizione “democratico” e frutto di un’alleanza ampia. Quel testo gli era valso amicizie nuove e influenti, in particolare con alcuni capi ribelli Nuer attivi nella regione petrolifera di Unity. “Uno di questi – sottolinea Lebrun – è James Gai Yoach, oggi a Khartoum, capace di mobilitare uomini anche nell’Upper Nile e in altre regioni al confine tra i due Sudan”.
Dopo mesi di scontri, però, le cose erano cambiate. Gadet aveva approfittato di un’offerta di amnistia di Kiir ed era divenuto ufficiale dell’esercito garantendo rendite di posizione e privilegi anche ai suoi compagni. La sua ascesa era proseguita nel 2012, quando era stato scelto per coordinare la campagna di disarmo delle comunità Nuer e Murle in lotta tra loro a Jonglei. Un impegno, questo, culminato nel marzo scorso nell’assegnazione di un incarico di rilievo ancora maggiore: la direzione dell’offensiva militare contro David Yau Yau, un capo ribelle Murle dal 2012 alla guida dell’Esercito per la difesa del Sud Sudan. Poi l’ultimo colpo di scena, questa settimana, con la caduta di Bor e il sostegno a Machar.
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Dal settimanale "Internazionale": Quattro cose da sapere sul Sud Sudan
(31 dicembre 2013)
In Sud Sudan i ribelli antigovernativi guidati dall’ex vicepresidente Riek Machar hanno attaccato di nuovo la città di Bor, dove ha sede il quartier generale delle Nazioni Unite nel paese. I combattimenti sono cominciati la mattina del 31 dicembre.
Solo la scorsa settimana l’esercito governativo aveva riconquistato la città, già attaccata dai ribelli. Il 27 dicembre il presidente Salva Kiir si era detto disponibile a firmare una tregua con i ribelli durante una conferenza di pace a Nairobi, in Kenya. Ma Machar aveva chiesto il rilascio di tutti i prigionieri politici prima dell’inizio dei negoziati, richiesta che il presidente Kiir ha rifiutato.
Il 31 dicembre Machar ha annunciato che la città di Bor è sotto il controllo dei ribelli e che ha inviato tre uomini ad Addis Abeba, in Etiopia, per trattare con il governo.
Ecco una lista di quattro cose da sapere per capire meglio quello che sta succedendo in Sud Sudan:
- Cos’è il Sud Sudan? Il Sud Sudan è il più giovane stato del mondo: ha dichiarato l’indipendenza dal Sudan il 9 luglio 2011, dopo un referendum. Ha 11 milioni di abitanti ed è uno dei paesi più poveri al mondo, solo il 35 per cento delle strade è asfaltato e il tasso di alfabetizzazione è del 27 per cento. L’economia del Sud Sudan dipende interamente dalle esportazioni di petrolio. Dal 2011 i problemi economici si sono aggravati a causa delle dispute territoriali e sul controllo del petrolio con il Sudan. Anche se il Sud Sudan è ricco di pozzi petroliferi, le raffinerie sono solo in Sudan, quindi dal punto di vista economico e commerciale Juba dipende dal suo vicino: il petrolio estratto in Sud Sudan deve essere raffinato in Sudan prima di essere commercializzato.
- Perché si combatte nel paese? In Sud Sudan le violenze sono cominciate il 15 dicembre 2013, quando alcuni militari di etnia dinka hanno cominciato a scontrarsi con altri membri dell’esercito di etnia nuer, accusandoli di preparare un colpo di stato. I soldati nuer sono guidati dall’ex vicepresidente Riek Machar, che è stato mandato via dal presidente Salva Kiir nel luglio del 2013. Kiir e Machar erano da molto tempo in disaccordo e si contendevano il controllo del governo e del loro partito, il Movimento per la liberazione del popolo sudanese (Splm). Ad aprile i poteri del vicepresidente Machar erano già stati ridotti. In vista delle presidenziali del 2015, infatti, Machar era pronto a mettere in discussione la leadership di Kiir all’interno del partito. Inoltre Kiir e Machar appartengono a due diversi gruppi etnici: Kiir è dinka, il gruppo più numeroso del Sud Sudan, mentre Machar è nuer, il secondo gruppo etnico del paese.
- Come ha fatto il Sud Sudan a ottenere l’indipendenza? Come per la maggior parte dei paesi africani il travagliato percorso verso l’indipendenza del Sud Sudan affonda le sue radici nella storia coloniale del paese. Il Sudan era una colonia britannica. Intorno al 1890 il Regno Unito aveva unito il territorio dell’attuale Sud Sudan senza troppa attenzione verso le differenze etniche e culturali dei due territori, anche per contrastare le rivendicazioni dell’Egitto sul nord del paese. Ma al di là dei confini stabiliti dall’autorità coloniale il paese appariva già diviso: mentre il nord era arabo e musulmano, il sud era cristiano e animista ed era abitato da gruppi etnici presenti nella fascia subsahariana.Nel 1956, con l’indipendenza del Sudan, i confini del paese sono rimasti invariati e la capitale è rimasta a Karthoum, ma il sud ha cominciato a chiedere l’indipendenza. La guerra civile era già scoppiata nel 1955, prima che il Sudan ottenesse l’indipendenza dal Regno Unito, ed era finita solo nel 1972 con la concessione di maggiore autonomia a Juba. Nel 1983 è cominciato un secondo conflitto quando Karthoum ha revocato l’autonomia concessa al sud. La seconda guerra civile è finita solo nel 2005, con un trattato di pace che prevedeva un referendum per l’indipendenza del Sud Sudan. Il 9 luglio 2011 il 98,8 per cento dei sudsudanesi ha votato a favore dell’indipendenza. Due fattori sono stati determinanti per il successo del referendum: l’appoggio degli Stati Uniti a Juba e l’ostilità internazionale verso il governo sudanese per le sue violazioni dei diritti umani e l’appoggio concesso a gruppi terroristi.
- È un conflitto etnico? In parte sì ed è collegato con la guerra per l’indipendenza. Infatti decenni di guerra civile con il Sudan hanno fatto sì che in Sud Sudan nascessero delle milizie costituite su base etnica. Queste milizie sono poi confluite nell’esercito nazionale sudsudanese (Spla). Ma già nel 1991 l’esercito si è diviso tra dinka e nuer e questi ultimi, che hanno formato l’Armata bianca, hanno attaccato la città di Bor, uccidendo duemila persone. Il conflitto tra nuer e dinka all’interno dell’esercito si era parzialmente sanato durante la seconda guerra civile, ma il conflitto politico tra Salva Kiir e Riek Machar rischia di riaccendere vecchie tensioni tra i due gruppi.